Ordinaria Sopravvivenza – Richard Evelyn Byrd
Storia di un isolamento estremo
Richard E. Byrd è stato un ammiraglio, aviatore ed esploratore statunitense. Era nato nel 1888 e tra le due guerre mondiali partecipò a diverse spedizioni polari. Per una di queste, nel 1934 Byrd passò più di 100 giorni da solo in Antartide, in una baracca coperta dalla neve, mentre fuori era sempre notte.
Byrd – un discendente di John Rolfe, il famoso colono britannico che aveva sposato la nativa americana Pocahontas – studiò all’accademia navale e dopo la Prima guerra mondiale, durante la quale prestò servizio per la Marina statunitense, si interessò di aviazione. Nel 1921 si offrì volontario per tentare la prima traversata aerea senza scali dell’oceano Atlantico, dagli Stati Uniti alla Francia. Il progetto però fu sospeso e Byrd finì con l’interessarsi di esplorazioni artiche. Durante un viaggio verso la Groenlandia conobbe l’aviatore Floyd Bennett, col quale nel 1926 decise di sorvolare il Polo Nord, una cosa che ancora non aveva fatto nessuno. Non si è mai capito se ci riuscirono davvero o se invece ci andarono solo vicini (si parla di possibili calcoli sbagliati e c’entrano alcuni appunti cancellati da un diario di Byrd), ma al tempo l’impresa ebbe una notevole risonanza.
Nel 1927 Byrd riuscì a sorvolare l’Atlantico (seppur con qualche settimana di ritardo rispetto a Charles Lindbergh) e nel 1929 sorvolò il Polo Sud (primo al mondo e in questo caso senza grandi dubbi sull’impresa). Insomma, alla fine degli anni Venti Byrd era un personaggio notevole: erano state fatte parate in suo onore, era stato alla Casa Bianca e l’allora presidente Calvin Coolidge gli aveva conferito la Medaglia d’onore, la più alta onorificenza militare statunitense. Ormai quarantenne, avrebbe potuto mettersi comodo e godersi fama e successo.
E invece no, nel 1933 organizzò una nuova spedizione antartica. Partendo da Little America, una piccola base sulla costa del continente antartico, e accompagnato da decine di altri compagni d’avventura, compresi molti cani da slitta e persino una mucca, Byrd voleva esplorare e studiare via terra il continente. Fu durante quella spedizione che Byrd si chiese se non fosse il caso di passare l’intera notte antartica, che va da aprile a ottobre, in isolamento tra i ghiacci, con lo scopo di raccogliere dati scientifici in posti in cui, d’inverno e per così tanto tempo, nessuno era mai stato prima.
Come ha raccontato il New York Times, all’inizio Byrd pensò che a quell’isolamento avrebbero potuto partecipare tre persone, ma decise poi che «la spedizione non poteva permetterselo». Considerò quindi se fosse il caso di fare la missione con un solo compagno, scartando però anche questa ipotesi in quanto «due uomini, chiusi per sei mesi al buio e al freddo, probabilmente avrebbero finito con l’ammazzarsi». Dato che era il capo della spedizione, non se la sentì di cercare eventuali volontari: decise che a isolarsi sarebbe stato proprio lui, nonostante un infortunio alla spalla dal quale ancora non si era del tutto rimesso.
Sappiamo quello che successe in seguito grazie ad Alone, un libro pubblicato anni dopo da Byrd, e nel 1948 pubblicato in Italia da Bompiani con il titolo Solo. Nel libro Byrd raccontò che decise di sfruttare l’occasione per sperimentare la vera solitudine, leggere tutti i libri che non aveva potuto leggere e ascoltare in santa pace un po’ di musica classica dal giradischi che decise di portarsi appresso. Era anche curioso di provare a vivere esattamente come avrebbe voluto, senza dover rispondere di niente a nessuno. «Non ne sono certo ora che è passato tutto questo tempo», scrisse, «ma forse desideravo sperimentare un’esistenza più rigorosa di quella che avevo conosciuto fino a quel momento».
Negli ultimi giorni del marzo 1934 Byrd raggiunse in aereo il luogo del suo isolamento, dove altri avevano già portato scorte e strumenti che gli sarebbero serviti per sopravvivere. Era una stanza ricavata sotto la neve, così da essere riparata dai forti e gelidi venti, con una specie di botola sul soffitto per poter uscire e con annessi una serie di corridoi nella neve in cui lasciare le provviste: tanta verdura essiccata e un po’ di carne di foca, tra le altre cose. Il tutto a centinaia di chilometri dai pochi essere umani che sarebbero rimasti a Little America (e a loro volta a migliaia di chilometri dal resto del mondo), sapendo che una volta scesa la notte non ci sarebbe stata possibilità di spostarsi. Fino a ottobre nessun aereo avrebbe potuto volare fino a dove si trovava Byrd, che tra l’altro aveva imposto agli altri membri della missione di non tentare eventuali missioni di soccorso.
Byrd vide il sole tramontare un’ultima volta il 12 aprile e, secondo quanto scrisse nel libro, i primi giorni passarono in relativa tranquillità. Dopo circa un mese le cose si fecero più complicate sotto diversi punti di vista, anche perché Byrd si rese conto che la sua stufetta a olio lo stava lentamente intossicando con il monossido di carbonio. «Ogni giorno», ha scritto il New York Times «si trovò a dover scegliere tra la possibilità di scaldarsi, e forse morire intossicato, oppure respirare in sicurezza, rischiando però il congelamento».
Nel libro Byrd raccontò come passava il tempo, e scrisse che ogni tanto provava anche a uscire all’aperto: solo che era un territorio buio e inospitale, in cui c’era il rischio di perdersi o cadere in qualche crepaccio. Una volta gli capitò di tornare da una “passeggiata” e scoprire che la botola da cui avrebbe dovuto passare per rientrare nel suo rifugio era ghiacciata. Riuscì a rientrare solo trovando – nel buio e nel freddo polare – un badile con cui far leva sulla botola. Tra l’altro, Byrd scrisse anche di esser così debole da non riuscire in certi casi ad aprire la botola nemmeno dall’interno. Secondo alcune sue stime, arrivò a perdere quasi 30 chili.
«Non mi ero preparato», scrisse Byrd, «alla scoperta di quanto un uomo possa allo stesso tempo avvicinarsi alla morte senza morire o voler morire». In un difficile giorno di inizio giugno si annotò questo pensiero: «La parte oscura della mente umana sembra essere un’antenna capace di sintonizzarsi sui pensieri negativi che arrivano da ogni dove».
Tra le tante e grandi difficoltà che attraversò, nel libro c’è anche spazio per quelli che il New York Times ha definito momenti più «lirici», per esempio quelli in cui Byrd descrive le aurore che riusciva a vedere nel cielo sopra la sua botola.
Il 5 giugno si ruppe il generatore elettrico che gli serviva, tra le altre cose, per far funzionare una radio, ma gliene restava comunque una di emergenza, che poteva avviare a pedali e dalla quale poteva mandare messaggi in codice Morse ai colleghi che nel frattempo erano a Little America. Nonostante Byrd avesse detto loro di non farlo, a giugno alcuni di loro provarono a raggiungerlo, probabilmente insospettiti dalla scarsa lucidità di alcune sue comunicazioni. Provarono due volte, ma fallirono.
Facendo un terzo tentativo, tre uomini della missione riuscirono infine ad arrivare da Byrd l’11 agosto. «Lui li accolse offrendo loro un piatto di zuppa», ha scritto il New York Times, «poi collassò al suolo». I quattro restarono nel rifugio alcune settimane, in attesa che arrivasse il sole e qualcun altro potesse raggiungerli.
Nel 1938 Byrd pubblicò Alone, che ebbe grande successo, non solo negli Stati Uniti.
Nel 1939 decise di prendere parte a una nuova missione antartica, ma nel marzo 1940 fu richiamato negli Stati Uniti per via della Seconda guerra mondiale. Dopo la guerra riuscì comunque a guidare una nuova spedizione, compresa la prima delle numerose operazioni “Deep Freeze“. Nel 1954 fu ospite di una trasmissione televisiva americana. «Ora su un aereo di linea puoi volare sopra il Polo Nord e sorseggiare intanto un cocktail», disse l’intervistatore, prima di chiedergli se ci fossero ancora, nel mondo, luoghi inesplorati. Byrd rispose che il Polo Nord «stava diventando sempre più affollato» e disse che l’Antartide già era e sempre più sarebbe diventato il più importante posto al mondo per la ricerca scientifica.
Byrd morì nel sonno, forse per problemi cardiaci, a 68 anni, l’11 marzo 1957.
Fonte “Il Post”